Vuoto.
Come svegliarsi dopo una nottata in cui si son fatti
mille sogni che però non si ricordano. La memoria svuotata. Ci si guarda
intorno cercando di riconoscere, di riconoscersi.
Uno sguardo al giaciglio da cui ci si è svegliati; siamo
arrivati qui da un altro mondo, forse nel mondo di ogni giorno stiamo ancora
sognando. Ma ora, in questo posto, nella spiaggetta, ci ritroviamo svegli. Con
pochi pensieri sbiaditi. Poche idee si affacciano al nostro pensiero quando
cerchiamo di ricordarci chi siamo e cosa stiamo facendo. Idee inconsistenti.
Come consigliava qualcuno, ci guardiamo le mani: le
nostre solite mani.
Avanziamo lentamente verso il mare.
Coi piedi in acqua vediamo la nostra immagine. È la
solita, ma non ci basta ancora per riconoscerci.
Ci fermiamo e rimaniamo in silenzio ad ascoltare la voce
continua del mare e dei ricordi che lì stanno e con le onde e col vento tornano
a noi.
Facciamo un bagno nell'attesa dei ricordi.
Il mare è pieno di pensieri e di ricordi. Tutti i
pensieri dei vivi e dei morti, ma non solo. Ci sono i pensieri appena nati e
subito abbandonati: volano sulla cresta delle onde, si accartocciano tra loro,
sbattono sugli scogli, si arenano sulla spiaggia trasformandosi in schiuma.
Altri pensieri han preso vita, una vita effimera, eterea; diventano oggetti o
anche esseri animati: sono i pesci e le creature di questo e forse dell’altro
mondo. Abitano i mari. Sono le alghe che vivono di maree, granchi e coralli,
pesci volanti che carezzano la superficie marina. E poi i ricordi pesanti:
cadono, o meglio caddero (o cadranno?) fino agli abissi marini. Sono i lutti,
gli amori persi, le sofferenze che non ci lasciano né da svegli né quando
dormiamo; ma talvolta anche gloriose, epiche conquiste, cambiamenti, nuove
lezioni che, dagli abissi, si innalzano fino a uscire dal mare e diventare
scogli o cime imperiose.
Pensieri su pensieri, ricordi che si mischiano, si
trasformano, ma rimangono tutti dentro il mare lasciando le coscienze vuote. Stanno
lì, in attesa di qualcuno che voglia dar loro ospitalità.
Ci immergiamo e poi galleggiamo nella posizione del
morto, del dormiente anzi. Poi, un bagliore e un insistente vociare proveniente
dalla spiaggia del sole ci destano.
Ricordiamo ora cosa vogliamo fare e usciamo dall’acqua.
*
Alle spalle il boschetto in cui mille sogni crescono e
scorrazzano che però ora non ci interessa. Esattamente come non ci interessa la
scogliera buia, che scalarla fa paura. Paura che però passa subito, perché ci
aspetta una giovane alba con mille nuvolette in cui riposano spiriti e uomini.
Ma ora nulla pare interessarci e ricordiamo il motivo: vogliamo andare nella
spiaggia del sole.
Ci giriamo a sinistra. Alziamo lo sguardo. È una piccola
salita e tutto ciò che c’è al di là è in sordina e con l’effetto del miraggio
del caldo torrido.
L'erbetta sotto i piedi solletica ed è fresca, ma il sole
è caldo. La spiaggetta, leggermente in basso sulla destra, saluta
amichevolmente. Le tenebre della scogliera, il conforto della giovane alba e la
confusione del boschetto continuano a far finta di ignorarsi.
Siamo in cima. Guardiamo e compensiamo la vertigine per
lo spettacolo sedendoci.
Pochi metri sotto di noi una gigantesca spiaggia con una
palla di fuoco che fa su e giù dentro il mare, poi su e giù nuovamente. Cambia
forse ritmo, velocità, ma non si ferma: su e giù.
Ok, andiamo!
*
Comincio la discesa verso la spiaggia del sole. Prima
quasi di corsa, poi rallento. Poi mi fermo per godere del brivido che mi sta
nascendo dalla schiena. Un brivido caldo. Lento. Mi guardo i piedi. Le mie dita
sono grasse, così come i miei piedi, le gambe, le mie braccia e tutto il corpo.
Sono diventato enorme e mollissimo. Mi verrebbe da ridere ma sorrido solo e
ricomincio a correre e poi cado. Rotolo sull’erba fino a fermarmi sulla sabbia.
Sono arrivato e provo ad alzarmi. È terribilmente
faticoso. Desisto.
Mi sto per preoccupare per la fatica e per la mia mole.
Perché sono ricoperto di grasso? La domanda mi fa automaticamente voltare verso
la scogliera della notte. Pensiero cupo chiama posto cupo, ma da dove siamo non
si vede la scogliera. Solo la collinetta verde e questa cosa gigantesca che
chiamo “la spiaggia del sole”, dove si fa il sole. È dietro di noi, bimbi.
Sento la sabbia sulla faccia e non so se voltarmi o no a guardare
questa cosa gigantesca, non so neanche se sono in grado di girarmi. Sono pesante
forse tanto quanto è enorme quella cosa gigantesca che è la spiaggia del sole.
Continuo a ripetermi “questa cosa”, questa cosa gigantesca. Insomma bimbi, non
è facile descriverlo e poi non siamo molto in forma in questo momento e allora
affondiamo la faccia nella sabbia.
Bimbi, sapete bene che qui potremmo muoverci con
l’immaginazione qui ma non ci riesco o forse ho paura di farlo; romperei
l’incanto? Barerei?
Mi faccio forza. Alzo il sedere, solo il sedere. Il mio gigante
sederone. Ma in questo modo il resto affonda ancor di più nella sabbia. Ma il mio
grasso sederone è ora esposto all’aria della spiaggia del sole. Il vociare –
non più in sordina – di questo posto, emette un boato: sta arrivando un’onda
gigantesca o mi stanno incitando? Mi giro in direzione del rumore, per capire
quale delle due ipotesi sia quella corretta: forse nessuna delle due. Sono lontano
dalla battigia e il vociare è continuo (come in ogni spiaggia, ma di più, di
più, tanto di più). Mi concentro e noto che il vociare è un sottofondo che si
riesce facilmente a eliminare.
Silenzio.
Un enorme peto, di quelli silenziosi ma lunghissimi – quasi
eterno – fa tremare il mio sedere già esposto alla potente brezza di questo
posto. Sono talmente molle che la doppia sollecitazione del peto e dell’aria
crea un effetto di panneggio sulla mia pelle. Il peto aumenta la sua potenza
dandomi forza e propulsione. Sono in piedi e mi guardo. Tutte le mie parti
molli ballano in un vortice di aria calda. L’aria ha smesso di defluire dal mio
corpo e solo ora mi rendo conto che sto gridando e ridendo fortissimo. Ci sono
persone intorno a me. Li guardo, mi guardano, o forse sono tutti sguardi che
vanno oltre perché siamo tutti ipnotizzati da quell’enorme palla arancione che
lentissimamente (altre volte velocemente) si tuffa in mare e risorge in cielo.
Non si può non guardarla. Sembra mettere a posto tutto, anche se non capisco
esattamente cosa ci sia da mettere a posto. Il fatto è che per la prima volta
nella nostra vita vediamo il sole così grosso (è grande almeno quanto un
palazzo di dieci piani), ma non brucia, cioè brucia ma non dà fastidio, e
soprattutto non acceca. Lo si può guardare senza fastidi, anzi. Lì dentro
sembrerebbero esserci mille altre cose o pensieri o galassie forse, O forse niente, dice un ragazzo che mi
passa accanto col suo surf in procinto di buttarsi in mare. Solo ora mi rendo
conto che il grasso si è ormai completamente asciugato dal mio corpo che è ora
asciuttissimo.
Sto esagerando.
Il mio corpo non esiste più. Sono uno scheletro in piedi,
proteso col muso in avanti. Ossa e muscoli. Lo vedo, me ne rendo conto. Però
forse non mi piace. Respiro per scacciare un piccolo moto d’ansia (mi ero anche
girato verso la scogliera che però continua a non vedersi perché coperta dalla
collinetta) e il mio corpo si ricompone di carne e pelle a ogni respiro; sono
di nuovo io.
Bruciamo col sole.
Dall’addome e dalla testa due turbini di fuoco che mi
avvolgono e si muovono all’impazzata fuori e dentro me. Arriva da lì, dal sole,
anche se nasce dentro me, penso.
Mi butto in acqua. Non è come il mare della spiaggetta,
non ci sono ricordi né pensieri. C’è altro ma è un coacervo di suoni, rumori
ingarbugliati. Provo a concentrarmi. Sono su di un’altra frequenza rispetto
alla nostra. Mi viene in mente il vecchio piatto a 33 e 45 giri che a seconda
di come si muoveva la levetta faceva rallentare o velocizzare la musica
ascoltata. Era divertente.
Questo pensiero funziona.
I rumori ingarbugliati si sgarbugliano. La frequenza è
quella giusta. Ora li capisco, ma con uno sforzo davvero enorme. Allungo le
orecchie, strabuzzo gli occhi: sento cantare. Poderosi cori russi, soavi
soprani che cantano melodie d’amore, ma anche musica strumenti, note. Intravedo
trame rock, canzoni note, ma è troppo, mi viene da vomitare, ho mal di testa.
Anzi no, no, non mi viene più da vomitare, è la testa…
Mi giro a guardare i rumori di prima che però sono
ovunque, non c’era bisogno di girarmi e poi dico “guardo” ma sto ascoltando,
perché dico che guardo? L’atteggiamento è di chi guarda, ma ascolto.
Perché questi pensieri turbinosi e noiosi? È la testa...mi
ripeto.
La testa, la testa che sta per scoppiarmi. Mi prendono fuoco
i capelli, mi butto sottacqua. Mi tocco i capelli. Ci sono, ci sono. Torno a
prender fiato (no, bimbi, forse non ce ne sarebbe bisogno ma qui le regole non
sono quelle solite, non ci siamo abituati non possiamo pretendere di riuscire
subito a fare tutto). Ma non sto ancora bene e non mi piace, qui si dovrebbe
stare solo bene.
Perché? Respiro profondamente.
Va meglio; riconosco di non essere terrorizzato (me ne
accorgo solo ora). Soffro, ma sono curioso. Soffro per la mia curiosità. Mi
sento solo un po’ troppo goloso. Vorrei capire e non soffrire, ecco.
Il fuoco c’è ancora. Si è solo spostato dalla testa all’addome
e si sta propagando ovunque. Sto andando a fuoco, mi immergo ma sto per esplodere,
almeno quella è la sensazione. Eccitato e spaventato allo stesso tempo; da
ridere e da piangere insieme.
Compio i classici cerchi con braccia e gambe per rimanere
a galla, alzo la testa ed è lì, accanto a me: il sole.
Un calore folle, pauroso, voluttuoso, attraente. L’acqua
bolle e massaggia tutto il corpo che lentamente sta per farsi inglobare dal
sole. Mi spaventa, non voglio. Mi immergo. Ancora di più. Il fondale è
sabbioso. Niente pesci, alghe o scogli. Nuoto sottacqua e sempre più velocemente.
Torno in superficie ed esco dal mare col fiatone.
*
In piedi sulla battigia con i pugni sui fianchi.
Cerco di capire mentre continuo a guardare quella cosa
gigantesca e la danza intorno ad essa: persone, lingue di fuoco, mare onde e
vapore. Su e giù. Delirio. Tutto ciò dà l’impressione di un’esplosione
continua. Non è quantificabile, calcolabile e per questo che è una “cosa
gigantesca” ed è per questo che l’unica cosa che si può dire per descrivere
bene questo posto è che qui “si fa il sole”.
Sto bene, benissimo.
Quel calore è come se avesse curato tutto il corpo. Solo
un piccolo dubbio. Sono stato vigliacco? Vedo delle persone chiaramente entrare
e uscire dal sole. Si può fare, si può tornare indietro. Ma io avevo paura.
Sapete, quella forza che attrae; quella cosa è
gigantesca... enorme. E io non mi sento affatto così enorme. Ma neanche debole
o indifeso. Non sento pericolo, diciamo. Ma forse è la solita paura di farsi
prendere, di perdere il controllo. Ma noi, bimbi, siamo in visita, per ora, semplici
turisti è normale non sentirsi a proprio agio.
Continuo a guardare rapito dei surfisti che compiono
evoluzioni entrando e uscendo dal sole. Surfano sui suoi raggi. Il trick più
ambito pare essere entrare dentro il sole quando è in fase ascendente in modo
tale da tuffarsi poi dall’alto fino al mare, magari cavalcando un
raggio solare. Li guardo meglio, sono fiamme antropomorfe, demoni surfisti, uno
spettacolo irreale. Ma in questa spiaggia di fronte al mare occupato da
quest’enorme giostra infuocata succede davvero di tutto e sicuramente di più.
Mi blocco a guardare delle persone (tantissime) che costruiscono una specie di
torre incastrando rami enormi che buttano in mare come fossero fuscelli.
Buttato un ramo sopra gli altri si arrampicano sulla torre. Tutti fanno così.
Ridono e vanno di corsa nel loro gioco. E solo ora capisco il perché: un’enorme
onda travolge costruzione e persone che scaraventate sulla spiaggia ridono
all’impazzata.
Mi dirigo in loro direzione e guardo il brulicare umano sulla sabbia. È la più grande festa che ci si possa immaginare.
Due ragazzi con costumi interi anni trenta scherzano tra loro per far colpo con una ragazza con tanto di ombrellino parasole. Poi, poco più avanti, una piccola orchestra suona in modo strano: i suonatori tengono i loro strumenti (violino, violoncello, piano a coda e un ottavino) sospesi. Li muovono e li fanno suonare dall’aria. Poi, ogni tanto, aggiungono del loro. Due note in più con anulare e mignolo sul violoncello, un singolo colpo d’archetto del violino; mentre l’uomo che suona il piano raramente si ferma. Suona insieme al vento. A volte fa una breve pausa, per capire dove il vento lo voglia portare, poi capisce, apprezza con un sorriso e torna ad aggiungere note, accordi, con le sue mani. E il bello è che, spostando leggermente lo sguardo oltre vedo dei ragazzi con dread, uomini tatuati e non, donne in bichini o nude (insomma, gente della mia epoca) che ballano come si fa nei rave. Ma la loro musica non arriva qui, non contamina quest’atmosfera. Mi muovo verso di loro.
Tra un tipo di festa e un’altra, tra una situazione e
l’altra, c’è una sorta di cuscino di silenzio, un po’ di silenzio che fa da
muro per tutto ciò che potrebbe dar fastidio all’udito (ma anche
alla vista…avrete capito che qui i sensi sono tutti un po’ mescolati).
Passo attraverso il rave. Mi sorridono tutti ma non
ballo, mi offrono da bere e fumare ma vado avanti sorridendo; magari un’altra
volta. La verità è che quella musica mi snerva dopo poco. E poi sono in mezzo a
un'altra festa. Gente con strumenti acustici che suona le canzoni della mia
vita. Canto, canto per non so quanto e girandomi sicuro di trovarli: di fronte
a me i miei amici. Qualcuno mi fa un cenno: sono i ragazzi del mio gruppo e
allora in un lampo rivivo tutto il sogno del mio gruppo, della mia musica, dei
nostri concerti, delle nostre prove (bimbi, ricordate l’orticello? Questo è il
suo funzionamento. Sono stato bravo a crearmi dei ricordi belli fra cui appunto
quello della musica e del mio gruppo. E nel mondo delle nuvole è più facile
stare se si sono coltivati bei pensieri).
Suono nella spiaggia del sole coi miei amici di sempre.
Ma è appunto un lampo velocissimo e ora sono in mezzo ad
un party sulla spiaggia con musica house. Qui ballo e bevo, comincio a parlare
con chiunque ma non capisco le parole e poi è giunta una ragazza bellissima che
forse conosco, non so, ma balliamo uno affianco all’altro. Ci sfioriamo…
…ma bimbi, oramai fortunatamente state dormendo e io non
so più come fermarmi quindi diciamo che ora basta.
Ci sono troppe cose. Anzi infinite quindi scordatevi
quelle storie che a un certo punto si capisce come va a finire. Questa semplicemente
è infinita. Ci sarà tempo per raccontarvi di cosa c’è dopo la spiaggia del
sole, della zattera ancorata al fiume, della vita dei demoni surfisti, dello
spazio dove ballando nasce la musica e di tutti quei posti che io non ho mai
visto ma che magari vedrete voi e mi racconterete.
Ultima cosa, sappiate solo che in questa spiaggia alla
fine incontro sempre una persona che mi convince a fare altro: abbandonare
questa spiaggia per andare altrove, anche tornare sulla spiaggetta nel caso.
Lo sai cosa c’è oltre la spiaggia del sole? Mi chiede.
Ciao Pagliaccio, certo che lo so, di là c’è il Paradiso
facile.
Bravo, sei affaticato? Hai il fiatone.
Un po’, sai questo posto…
È un
casino, lo so. È per quello che serve la spiaggetta. Dai torniamo.